Conversazione con Dina Mantoan a cura di Gianni Faccin
Secondo don Luigi Ciotti ci sono almeno 33 guerre in corso nel mondo. Altri dicono il doppio. Fossero anche di meno sempre di grandissime tragedie staremmo a parlare, con centinaia di migliaia di morti. Eppure perdurano da tempo iniziative non scontate che si contrappongono agli odi e alle guerre in ogni caso fratricide. Sono anche queste le vie della pace.
Con quel che sta succedendo vicino a noi, in Ucraina, teniamo presente che sono moltissime le persone in fuga dalla guerra. Da anni. Per esempio dal continente africano, ma anche dal medio-oriente. Diamo spazio oggi ad una iniziativa vissuta a Schio durante la pandemia. Una delle numerose risposte concrete al bisogno diffuso di pace e sicurezza grazie all’atteggiamento locale, soprattutto volontaristico, ispirato al senso di solidarietà e di accoglienza.
E ne parliamo con Dina che rappresenta un nutrito gruppo informale di volontari, il gruppo Volontari dei Corridoi Umanitari, che ha immediatamente risposto, con la collaborazione della Unità pastorale S. Bakhita di Schio e della Comunità Sant’Egidio, all’apertura di corridoi umanitari nel conflitto siriano.
DOMANDA: Dina, dopo l’esperienza a Poleo di Schio con il gruppo di profughi provenienti dal Mali, della quale potremo parlare in altra occasione, visto gli sviluppi positivi d’integrazione, durante la pandemia non vi siete fermati, anzi, avete serrato le fila dei volontari e avete accolto ancora …
RISPOSTA: Sì, è così. Accogliere si può, nonostante le difficoltà, nel nostro caso il Covid che ha reso tutto più difficile.
D: Da dove è partita questa avventura?
R: Innanzitutto da un desiderio, desideravamo far arrivare in Italia e ospitare una famiglia siriana in fuga dalla guerra. Ci siamo consultati e poi, nel giugno del 2019, alcuni di noi di Poleo, per non interrompere il cammino appena concluso di accoglienza di alcuni ragazzi del Mali, con un passaparola abbiamo coinvolto amici e conoscenti al fine di aderire al progetto pilota di corridoi umanitari promosso dalla Comunità Sant’Egidio, finalizzato all’accoglienza di profughi di guerra provenienti dalla Siria e dal Corno d’Africa.
D: In cosa consisteva esattamente il progetto?
R: Si trattava di aiutare famiglie o persone singole in situazioni di fragilità e di vulnerabilità, giunte in Italia dai campi profughi per vie legali, secondo l’accordo del 2015, rinnovato nel 2017 con firma del Governo italiano, la Comunità Sant’Egidio, la Tavola Valdese e la Federazione delle Chiese evangeliche.
D: E le spese?
R: Le spese erano interamente a carico del gruppo ospitante, infatti si sapeva che lo Stato italiano non avrebbe assolutamente contribuito.
D: Bene, torniamo al progetto e alle vicende iniziali …
R: Il gruppo di volontari hanno maturato la decisione di mettersi ufficialmente a diposizione nell’estate stessa. Eravamo già una trentina di aderenti. Successivamente si sono cercati mezzi, competenze e struttura. Trovata la casa, messa a disposizione dalla parrocchia di San Pietro, si è cercato subito di capire le necessità strutturali e procedere con la parziale ristrutturazione. Si prevedeva di finire agli inizi del 2020. Era diventato urgente predisporre il tutto dal momento che gli “ospiti” sarebbero arrivati probabilmente di lì a poco. Si pensava a marzo … ma …
D: Qualcosa andò storto?
R: Già. Fu il lockdown a raggiungerci. La pandemia provocò le famose e terribili restrizioni che cambiarono la vita di tutti. Il nostro progetto restò sospeso, pur in presenza di una famiglia siriana già individuata e in attesa di essere trasferita. Tutto fu rimandato a data da destinarsi …
E …
Fummo nell’incertezza per tutta l’estate. Continuammo a fare interventi logistici, di arredamento ecc. Ci tenemmo come gruppo costantemente aggiornati anche via email o con videochiamate. Finalmente a settembre 2020 fummo chiamati dagli operatori della Comunità Sant’Egidio: a fine ottobre i nostri “ospiti” sarebbero arrivati a Fiumicino.
Eravamo emozionati, felici ma anche preoccupati, visto il riprendere della pandemia. Ma ormai eravamo al punto vero del progetto, la vera concreta accoglienza. Fu un momento importante e una data da ricordare quel 30 ottobre 2020, allorquando la famiglia H. fu ospitata dapprima a Poleo, in canonica, per la quarantena fiduciaria, successivamente nella casa preparata per loro, vicino al centro urbano.
La famiglia viveva da almeno sette anni nei campi profughi. Erano in cinque, i genitori giovani, età meno di 30 anni e i tre figli tutti piccoli. Subito hanno trovato calore e tante persone intorno, ma vanno ricordate le loro difficoltà iniziali: parenti lontani, difficoltà linguistiche, abitudini totalmente diverse, isolamento e regole anti-Covid, per dirne alcune. Sapevamo che, gradualmente, ci voleva assolutamente tutto il lavoro di integrazione che non sarebbe stato assolutamente una “passeggiata”.
D: Dina, dalla tua narrativa si sente tantissimo il tuo entusiasmo personale, condiviso certamente con il gruppo di volontari, ma anche la tua ansia rispetto alle prospettive di questa integrazione …
R: Certo. Dal punto di vista burocratico le cose sono andate subito abbastanza bene, pur con qualche lungaggine. Bene il permesso di soggiorno provvisorio, il riconoscimento della protezione internazionale, l’inserimento nel sistema sanitario nazionale, l’inserimento dei bimbi nella scuola materna, l’inserimento dei genitori nei corsi di italiano, ecc. Dal punto di vista organizzativo le cose sono anche andate bene e proseguono oggi, visto che possiamo contare su tanti sostenitori e liberi finanziatori. All’epoca costituimmo un gruppo operativo di volontari per la gestione della quotidianità, più complessa, questa sì, del previsto.
D: Come siete rimasti con la Comunità Sant’Egidio?
R: Secondo quanto concordato sono stati fissati 18 mesi progettuali affinché la famiglia raggiungesse una quota di autonomia e di integrazione, oltre ad un livello adeguato di apprendimento di lingua italiana. Questo è un punto assai sensibile perché la famiglia conosce ancora solo l’arabo e non può servire una mediazione linguistica per facilitare il processo di apprendimento. Inoltre, il contesto culturale di provenienza, la guerra, le loro abitudini di vita, comprese quelle alimentari, rallentano ancora oggi l’integrazione nel nostro mondo, e anche per noi spesso ci sono continue scoperte inaspettate.
D: Se ho inteso bene, Dina, è stata fatta un’opera importante di accoglienza fraterna, investendo non solo in generosità e attenzioni, ma anche in capacità, competenze, collaborazioni, risorse, e oggi non possiamo dire che sia quasi finita, anzi il bello deve ancora venire …
R: Non è stato facile e non lo è oggi. A fronte delle nuove difficoltà stiamo lavorando ancora insieme con i nostri “ospiti”. Insieme stiamo cercando di trovare un’intesa chiara, a partire dalla nostra volontà di comprendere e rispettare i loro vissuti. Tutto è stato ostacolato dalle conseguenze della pandemia. Contiamo oggi di essere più agevolati visto che le restrizioni sembrerebbero ridursi. Dobbiamo soprattutto fare i conti con persone abituate dalla loro giovinezza se non dalla loro nascita a vivere in tenda e all’aperto e che ora si confrontano con una situazione organizzata come la società, la casa o la scuola. Permane pesante la difficoltà linguistica per capire gli altri e farsi capire. È stato un percorso molto, molto impegnativo.
D: Quindi, le prospettive?
R: I due genitori non ancora trentenni avevano un sogno, dare un futuro ai propri figli in Italia. Se questo era il loro sogno, noi li abbiamo decisamente sostenuti in quella direzione. Ci siamo rifatti ad un modello educativo, quello “adottivo”. Li abbiamo accompagnati come si fa con i figli, per farli studiare, per aiutarli a trovare un lavoro, una casa, per renderli autonomi e perché riuscissero un po’ alla volta ad arrangiarsi. Una particolare attenzione, non scontata all’inizio, l’abbiamo data in campo educativo. Oggi non possiamo prevedere quanto sarà lungo questo processo d’integrazione, senz’altro non sono bastati 18 mesi del progetto, ma siamo disposti a seguirli ancora con pazienza e determinazione. Puntiamo, uscendo da qualsiasi forma di pietismo o assistenzialismo, affinchè possano vivere in mezzo a noi con dignità. Possano scegliere in libertà il loro progetto di vita e possano realizzarlo.
D: Questa è una proposta di crescita umana …
R: Sì, lo è. Impegnativa, molto impegnativa, come già detto. Però è una proposta che porterà frutti per loro e anche per noi. L’abbiam già constatato. L’arrivo e la presenza di questa famiglia ha scatenato una gara di generosità straordinaria, ha unito molte persone che si sono messe in gioco. Molti di noi si sono ritrovati dopo molto tempo, la cerchia delle conoscenze si è allargata, si sono create nuove relazioni. Penso che quello che è avvenuto e che sta avvenendo sia un esempio di solidarietà possibile e sostenibile non solo secondo la proposta evangelica, ma anche secondo i principi ispiratori della nostra Costituzione.
D: Questo della solidarietà possibile e sostenibile è un tema per niente secondario sia a livello locale sia a livello globale. Che ne pensi?
R: In verità mi vengono da tempo delle domande che mi chiedo se sono solo mie. In particolare pensando a noi, qui a Schio, uno dei più grandi comuni di Vicenza:
- Qual è lo stato dell’accoglienza nei territori?
- Com’è l’accoglienza qui da noi?
- Che ruolo ha il Comune?
Ad esempio, in passato c’erano a disposizione delle scuole i mediatori culturali. Oggi, se ce n’è bisogno, in alcune scuole ci si deve arrangiare e ricorrere ai volontari… Conosco un istituto scolastico di Schio che fino all’anno scorso aveva il servizio di mediazione finanziato dalla Chiesa valdese, quest’anno no … In ogni caso in un progetto di accoglienza, il Comune potrebbe creare posti di lavoro e offrire un servizio facilmente fruibile … Perché il Comune non può pensare ad un sostegno o addirittura ai Corridoi umanitari come capofila e comunque in sinergia con enti come Parrocchie, Caritas, Comunità di Sant’Egidio, o altri anche in questo caso con educatori di comunità stipendiati dall’amministrazione che potrebbero aiutare gli enti ideatori e i volontari anche solo per pratiche burocratiche e relazioni con istituzioni (Questura, Scuola, Aulss).
Ci sarebbe poi il problema degli alloggi. Il Comune ha abitazioni proprie che potrebbe mettere a disposizione ad affitti agevolati o a garantire contributi per il pagamento degli affitti? E c’è tutto il discorso dell’integrazione degli stranieri nel territorio italiano, rapporti con i servizi, adattamento al nostro sistema di vita nel rispetto delle loro culture, e questi sono solo alcuni esempi.
D: Mi pare Dina ci siano tante cose da fare…
R: Infatti. E sono cosciente che tutto non si può fare. Ma almeno dimostrare che qualcosa d’importante si faccia a livello locale: questo potremmo aspettarcelo. Il principio di fondo per me è che il Comune rappresenta una comunità cittadina e quindi dovrebbe pensare a progetti di accoglienza che siano segno di rispetto della Costituzione e di uno spirito solidaristico di respiro ampio che superi i ristretti limiti comunali secondo valori democratici e, se vogliamo, cristiani, visto che la nostra cultura è plasmata anche da questi.
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